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alcune produzioni
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STRAVAGANZA
di Dacia MAraini
atto unico della durata di 80 minuti
Ecco come l'editore, in maniera succinta e precisa, presenta
questo testo del 1987: "Le vicende di cinque malati di mente che
dopo anni di manicomio, grazie alla nuova legge, possono tornare a
casa. Ma il mondo esterno non sembra preparato ad accoglierli, e
così faranno una scelta imprevedibile quanto inevitabile. Elogio
della pazzia? Perché no". "Non ci saranno più pazzi ma solo
malati" recita uno dei personaggi di Stravaganza: questa la critica,
lapidaria e sottile, che Dacia Maraini propone durante la stesura di
questo appassionante e controverso testo teatrale scritto nel 1986,
otto anni dopo l'entrata in vigore della legge 180/78, passata alla
storia come "Legge 180" sulla chiusura dei manicomi. Stravaganza è
un testo forte e lucido che penetra nel mondo nascosto della
malattia mentale, indagandone gli aspetti sociali, familiari e
personali di ogni internato costretto a diventare ospite solo di se
stesso. La legge 180 è colpisce il malato mentale, che
improvvisamente dovrebbe - per legge, appunto - 'smaltire' decenni
di manicomio, scalare la gerarchia dell'igiene mentale e quindi
trasformarsi da folle in malato, da paziente a parente, per
diventare ospite solo di se stesso o di una famiglia di origine non
preparata ad accoglierlo. La 'stravaganza' del titolo è l'avere
un pensiero stravagante: l'unico patrimonio dei nostri protagonisti,
che in un'idea stravagante, frutto delle loro frustrazioni e dei
loro dolori, cercano fiduciosi una via d'uscita da un mondo
nevrotico e desolante. Essere dentro o fuori: e se li cercassimo,
dove li troveremmo? Questo l'interrogativo che si sono posti
all'inizio del viaggio gli attori Paolo Papini, Leonardo Torrini e
il regista Lodovico Giurà.
NOTE DI REGIA
Da un punto di vista prettamente scenico la regia è impostata
sulla contrapposizione di due ambienti e due situazioni, l'interno
del manicomio e il mondo esterno, dove i 'pazzi' si ritrovano
improvvisamente catapultati. All'interno del manicomio c'è degrado e
abbandono ma gli spazi sono aperti, e la libertà dei personaggi è
limitata più dall'oppressione dell'etichetta della pazzia (oltre che
dalla loro malattia) che da un'effettiva impossibilità di movimento.
Il pubblico non deve percepire, nei limiti del possibile, niente di
artefatto o artificiale: niente quinte, niente fondali, ma solo la
nuda struttura del teatro. Al manicomio si contrappone il mondo
esterno, vera prigione sia per i malati che per le loro famiglie. Le
scene si svolgono all'interno di una gabbia dove gli spazi sono
ristretti e i 'sani' vivono, senza rendersene conto, nei loro logori
cliché, inadeguati davanti alla verità e sincerità dei malati,
esclusi e da escludere. Anche la recitazione e lo studio dei
personaggi sono impostati sulla contrapposizione fra i malati
- sofferenti, angosciati e incapaci di trovare se stessi ma
dotati di vitalità - e i sani, che non riescono ad uscire dalla
recitazione di se stessi e a vedere gli altri al di fuori degli
schemi prestabiliti delle "ovvietà sociali". Questo tipo di
impostazione registica porta in maniera naturale al finale del testo
della Maraini e alla 'soluzione', forse illusoria, di una comune di
pazzi; e il solo luogo in cui tale idea 'stravagante' può prendere
corpo è il manicomio con i suoi spazi aperti, che non sono altro che
spazi mentali, recuperati alla libertà proprio dalla legge 180.
Lodovico Giurà
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MARATONA DI NEW YORK
di Edoardo Erba
atto unico della durata di 60
minuti
regia
Lodovico Giurà
con Paolo
Papini e Leonardo
Torrini
Aperta
campagna di notte. Due giovani si incontrano per iniziare quello che
sembra un allenamento in preparazione alla maratona di New York.
Durante la corsa, uguale a tanti altri allenamenti, Mario e Steve si
raccontano l’uno all’altro in un alternarsi di momenti comici e
drammatici. Da questa situazione di apparente normalità lo
spettatore si trova ad assistere ad una corsa che va ben oltre
l’atto sportivo, fino a toccare temi esistenziali con un finale a
sorpresa. Il fulcro dello spettacolo si muove sul controverso
rapporto fra il debole e problematico Mario ed il cinico e
pragmatico Steve. Lo stretto legame fra i due personaggi si evolve,
fino a mostrare l’umanità e l’effettivo scopo di questa strana corsa
che non si può fermare.
Mario è
appena morto in un incidente automobilistico, e in realtà la sua
corsa è quella che lo porta via dalla vita: ‘Vai da dio!’, lo
incoraggia Steve in un momento in cui lo spettatore non può ancora
cogliere il doppio senso, e riferisce l’esclamazione alla qualità
della prestazione sportiva piuttosto che alla destinazione. La
conversazione fra Steve e Mario aiuta quest’ultimo, gradualmente, ad
acquisire coscienza dell’accaduto, e ad accomiatarsi dal mondo;
proprio questa è la funzione dell’amico, che accompagna, aiuta,
sprona, consola, incoraggia, pungola Mario in questa corsa senza
ritorno. Steve però non è morto, non era in macchina con Mario al
momento dell’incidente, ma il loro rapporto speciale (Mario: “Perché
noi siamo fratelli, vero Steve?”) fa sì che Mario evochi proprio lui
per affrontare la sua ultima, durissima maratona, e per salvare se
stesso da una resa disperata alla
morte.
NOTE DI REGIA
La regia è impostata su tre piani di
lettura sovrapposti e strettamente legati fra loro anche nel testo.
Il primo,
più immediato, è quello dell’allenamento sportivo che si svolge
attraverso la corsa continua dei due personaggi e delle questioni
tecniche di fiato, ritmo e sforzo fisico che ciò comporta. Queste
vengono riprodotte nello spettacolo con particolare attenzione,
poiché sono proprie della disciplina della maratona e testimoniano
una particolare accuratezza da parte dell’Autore nel conferire
realismo alla corsa.
Il ricordo di eventi e stati d’animo del
passato è posto sul secondo piano che, da un punto di vista
registico, porta sul palcoscenico i luoghi e i tempi rievocati
dall’attore narrante; nel frattempo l’altro interprete continua la
sua corsa sul primo piano di lettura, in un gioco di sdoppiamento
delle situazioni che tornano a convergere in reciproche
contaminazioni allorché la forza emotiva della rievocazione è
particolarmente trascinante.
Il terzo e
più profondo piano di lettura registica è quello della situazione
reale, vale a dire il trapasso di Mario. Questo viene inizialmente
alluso da sprazzi recitativi dissonanti, e suggerito con più
insistenza, ma mai esplicitamente (se non con i doppi sensi che però
lo spettatore non può ancora capire), via via che lo spettacolo
progredisce. Su questo piano di lettura, le allusioni e i doppi
sensi hanno lo scopo di preparare sia Mario che il pubblico alla
consapevolezza finale, e quindi viene dato loro un rilievo adeguato;
in questo modo, quando si forniranno gli elementi decisivi per la
comprensione, anche nello spettatore come nel personaggio, potrà
ingenerarsi un ricollegamento ‘a posteriori’ dei suggerimenti
precedenti, e una ricostruzione del percorso narrativo verso
l’acquisizione della consapevolezza dell’accaduto. La realtà e la
drammaticità della situazione prendono così il sopravvento piano
piano, in un crescendo fortemente accelerato nel finale, in cui il
terzo livello di lettura converge sul primo annullandolo e la verità
appare evidente, in contemporanea al pubblico e a Mario
stesso.
Lodovico Giurà
Del testo è
stato scritto:
"Assolutamente da non perdere quest'ora di teatro con
due attori che per tutto il tempo recitano e corrono... questo testo
che cita e polverizza in estenuanti falcate i massimi sistemi..."
(Rodolfo Di Giammarco, La Repubblica)
"L'inglese
David Storney avrebbe invidiato a questo testo l'idea che
sta alla base di Maratona di N.Y... il fascino stordente, noto ai
primitivi, della scansione ritmica senza variazioni, qui data dal
passo cadenzato dei maratoneti..." (Masolino d'Amico, La
Stampa)
"... qui sta
la forza di questo piccolo, misurato, e ben articolato testo: nello
scarto poetico che propone in prospettiva, senza insistere in alcun
manierismo o caduta sentimentale... " (Paolo Petroni, Il Corriere
della sera) "... dotato di grande fascino teatrale, arriva
fino a una sorta di iperrealismo che sfuma nell'astrazione..."
(Dante
Cappelletti, Il Tempo)
"L'operina è
un gioiello di giustezza psicologica, di surrealtà quotidiana, di
rigore logico applicato ai tempi della finzione
teatrale..."
(Ugo
Ronfani, Il Giorno)
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CALDERON
di Pier Paolo Pasolini
Atto unico
di 90 minuti circa
regia Paolo Papini e Leonardo Torrini
con Acquisti Manuela, Vincenzo Brogi, Marco Burla, Emanuele
Capoano, Luca Daddi, Armando Ermini, Alessandra Masala, Simona Mazzoni, Rosanna
Spinella, Elena Tarsi,
Calderón
è ambientato nella Spagna franchista. Oggi, nel 40esimo
anniversario del ’68, il testo di Pasolini ci mostra una visione preveggente
della società che pochi intellettuali e scrittori sono stati capaci di
elaborare.
Il tema del
dramma può essere visto sotto più punti di vista. È una cupa, scabra parodia
sull'impossibilità di evadere dall'universo costrittivo della propria
condizione sociale. È una rappresentazione del potere che trasformandosi, così
come si trasforma la società, ritorna ad essere se stesso. É, soprattutto, una fotografia
della condizione umana vincolata ai meccanismi sociali e psicologici della
nostra esistenza.
Tre sogni (o
realtà?) successivi, tre ambienti: aristocratico, proletario, medioborghese.
Una ragazza, una donna, una madre, Rosaura appunto, tenta ogni volta sognando
di sottrarsi al clima soffocante, al codice oppressivo secondo cui è costretta
a vivere. L'amore impossibile, l'amore "diverso" è il vettore della
fuga, ogni volta frustrata e interrotta dall'insorgere delle insormontabili
barriere del proprio status.
Nel primo sogno
Rosaura si innamora di un ex amante (e violentatore) della madre che le si
rivela essere suo padre; nel secondo, nei panni di una prostituta, è gonfia di
passione per un giovinetto, che scoprirà più tardi, per bocca di un prete, essere
il proprio figlio che le era stato sottratto appena nato; nel terzo è una
moglie rassegnata che, dopo non aver voluto accettare per un certo periodo
questa vita rigida contenuta tra le istituzioni, non sogna ormai più ma cade
periodicamente in preda a uno stato di delirio da malata, innamorandosi senza
speranza di un ribelle che verrà arrestato dalla Falange.
Nel finale del dramma, Rosaura si risveglia per la quarta e
ultima volta e finalmente ricorda il sogno: lei viveva in un lager dove, alla
fine, irrompevano gli operai con le bandiere rosse. Re Basilio, la figura del
potere che pervade tutta l'opera, commenta:
in questo momento comincia la
vera tragedia. Perché di tutti i sogni che hai
fatto o che farai
si può dire che potrebbero essere
anche realtà.
Ma, quanto a questo sogno degli
operai, non c'è dubbio:
esso è un sogno,
niente altro che un sogno.
NOTE DI
REGIA
La regia
di questa messa in scena si basa su un teatro realistico ma non naturalistico.
I personaggi agiscono, e soprattutto reagiscono, all'interno del meccanismo
scenico e dell'interazione fra loro, in maniera assolutamente naturale, mentre
l'ambiente che li circonda è assolutamente innaturale e artificiale. L'accento
è così posto sull'incapacità umana di sfuggire alla costrizione ambientale,
malgrado essa sia più una condizione psicologica e fisica interiore che
un'effettiva gabbia imposta dai meccanismi di potere. Il potere, impersonato
dalla figura di Basilio, è sempre presente in scena anche se agisce il meno
possibile: lo stretto necessario affinché il dramma si compia e la
trasformazione della società avvenga senza che nulla cambi. Il rapporto fra
attori e pubblico si basa su una concezione Grotowskiana in cui il pubblico,
mentre vede lo spettacolo, ha come sfondo il pubblico stesso; ecco che lo
spettatore è come se vedesse se stesso muoversi inconsapevolmente all'interno
delle vicende del dramma. Tale scelta è risultata naturale per mettere in
evidenza il carattere di un'opera che ha come funzione principale il mostrare
la condizione umana in relazione ai meccanismi sociali, così da stimolare la
consapevolezza del singolo.
Da un
punto di vista attoriale il lavoro si è basato innanzitutto sulla ricerca di
una comprensione profonda delle tematiche del testo e dei comportamenti dei
personaggi. A questo scopo uno strumento, che si è rilevato veramente efficace,
è stato la definizione degli "archetipi di personaggio": figure
dotate di connotazioni forti e specifiche capaci di influenzare
nell'immaginario e nella vita effettiva il comportamento umano. I personaggi
del dramma Pasoliniano attingono a piene mani dalle caratteristiche di questi archetipi,
permettendo agli attori una vivicità e veridicità d'interpretazione
indispensabili per far risaltare gli aspetti più umanamente e socialmente
interessanti del testo.
Paolo Papini e Leonardo Torrini
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